Perché il design thinking funziona
Nel numero di settembre-ottobre 2018, la Harvard Business Review ha pubblicato un articolo di Jeanne Liedtka dal titolo Why Design Thinking Works che analizza i processi di innovazione e le conseguenze sulle vita pratica delle persone e delle organizzazioni.
Liedtka, docente di Gestione Aziendale alla Darden School of Business della University of Virginia, ha analizzato circa 50 progetti di diversi settori (aziende commerciali, ma anche servizi sociali e sanità) alla ricerca di una tecnologia sociale capace di produrre una innovazione sostenibile.
Con una spinta sottile ma irreversibile, il design thinking riesce a scardinare pregiudizi (ad esempio, il nostro radicarci in uno status quo) e norme comportamentali (ad esempio, “Qui le cose le facciamo così”) che bloccano l’esercizio di immaginare soluzioni diverse.
Pregiudizi e norme comportamentali sono, per Liedtka, i principali nemici e una delle principali cause di fallimento per tante aziende che hanno provato a innovare senza adottare un processo adeguato all’obiettivo.
Ciascuno di essi ha vantaggi e svantaggi: sono le sfide dell’innovazione.
Soluzioni di qualità
Definire i problemi in contesti convenzionali porta a soluzioni ovvie.
Una domanda più interessante spinge il team a trovare risposte più originali. Le soluzioni che coinvolgono le persone e portano voci nuove nella discussione aiutano a trovare risposte inaspettate.
Bassi rischi e costi
Fase cose nuove significa fare cose che non conosciamo e non sappiamo che effetto avranno su di noi e sul mondo che ci circonda.
Avere più opzioni aiuta a scegliere rischi e costi più bassi, ma solo se la selezione scarta le idee peggiori. Come avviene spesso, le idee che consideriamo peggiori sono quelle insolite, e spesso anche quelle più creative.
Partecipazione dei dipendenti
Nessuna azienda o società civile può innovare se i suoi dipendenti (o cittadini) non partecipano.
Le soluzioni calate dall’alto creano risposte di comodo: senza partecipazione, l’innovazione non esiste. Le soluzioni troppo partecipative, d’altronde, generano caos.
Senza una tecnologia sociale che gestisca i diversi touchpoint e aiuti le persone a superare gli ostacoli comportamentali, la strada è senza uscita.
Un percorso ben segnato
Il design thinking propone un set di strumenti che aiutano a delimitare il percorso senza annullare il contributo individuale di chi partecipa.
È un processo organizzato che evita che i partecipanti (che Lietdka chiama “innovatori”) perdano troppo tempo su un problema o che lo saltino per impazienza.
Le persone sono guidate dalla paura di sbagliare e cercano di evitare che avvenga, a discapito delle opportunità: scelgono di non fare per evitare i rischi.
Senza azione non c’è innovazione, e allora la sicurezza psicologica è essenziale.
Gli strumenti ben delimitati del design thinking offrono quel senso di sicurezza che serve alle persone per generare e testare nuove idee. Alcune sue metodologie nascono infatti dall’etnografia e dalla sociologia, e esaminano cosa rende significativa una customer journey più che raccogliere semplici dati.
Una volta compresi i bisogni delle persone, gli innovatori potranno identificare soluzioni specifiche.
Il momento fondamentale è l’organizzazione degli incontri con i partecipanti e il dialogo sulle possibili soluzioni.
I processi di design-thinking, insomma, attaccano i pregiudizi delle persone mentre affrontano le sfide tipiche di chi cerca soluzioni superiori, costi e rischi bassi e partecipazione dei dipendenti.
Forma le esperienze in un percorso strutturato, che spaventa meno e coinvolge negli obiettivi e nella creazione di un risultato condiviso.
È una vera tecnologia sociale al lavoro, una delle poche davvero efficaci nel progettare un futuro sostenibile.
(Leggi l'articolo originale in inglese)